Spunto a partire dal seminario Fake news, Real consequences

complotto

di Flavio Vasta.

Nell’ambito del corso di Informazione ed editoria, il 5 dicembre scorso si è svolto il seminario “Fake News, Real Consequences“, i temi discussi sono stati molteplici: da approcci più teorici che, ad esempio, mostravano la diffusione delle cosiddette fake news nel corso della storia, per arrivare a un resoconto empirico, l’esempio della società civile finlandese, con il suo alto tasso di lettura dei giornali.

A mio avviso, un implicito che in tutti gli interventi ha fatto fatica a emergere è l’esistenza della figura ben definita del complottista.

Quello che mi è parso di sentire erano discorsi poggiati su un certo razionalismo, che impedisce di guardare all’aspetto principalmente emotivo, della “credenza” verso le fake news.

Vorrei qui brevemente analizzare il contesto che produce la figura del complottista, mostrando come questa non sia un accidente della storia ma un prodotto naturale nel contesto del declino sociale e psichico della società occidentale contemporanea e, inoltre, di come essa potrebbe diventare una regola, più che un’eccezione di cui prendersi beffe.

La società, per Luhmann, non è altro che l’insieme di sottosistemi sociali che comunicano tra loro, differenziandosi progressivamente l’uno dall’altro, ognuno sviluppando sue proprie funzioni. 

La società è quindi un insieme di comunicazioni, più o meno complesse, più o meno semplici, di/su ciò che accade in ciascun sottosistema sociale.

Il soggetto stesso, in questa prospettiva teorica, non è altro che una singola intersezione nell’insieme di alcune comunicazioni: è interamente un prodotto societario con scarsissima agentività, in quanto soccombe sistemicamente ai flussi comunicativi sui quali tutta la società si regge.

Ognuno di noi, dal più colto al meno istruito, si trova fondamentalmente in balìa delle comunicazioni che ogni giorno lo assalgono senza sosta.

Non esiste isolamento dalla comunicazione, se non inteso in senso letterale, cioè spaziale, geografico: soltanto una vita eremitica potrebbe allontanarci, e forse non del tutto, da questa dinamica.
La realtà che ci circonda è piena di tecnologie e in particolare di tecnologie che comunicano: radio, televisione, fino allo smartphone, dispositivo resosi via via sempre più indispensabile nella conduzione della vita quotidiana, protesi del corpo che mai lo abbandona.

Non scegliamo noi a quali comunicazioni, sub specie informazione, essere esposti. Ci sono degli algoritmi che studiando i nostri gusti e abitudini tarano per noi il tipo di notizie da leggere.

Conosciamo ciò che la macchina capisce che noi vorremmo conoscere.

Se c’è un bias, qui, è certamente della macchina, che non sa dell’importanza della varietà delle fonti di informazione e del tipo di notizie che sarebbe meglio ricevere; ma c’è anche un bias tutto umano, quello dell’utente, che non smette di abbeverarsi alle stesse fonti sicure, considerate come affidabili perché amiche delle proprie idee.

Accanto a questo doppio bias cognitivo, troviamo la pianificazione scientifica di chi invece la macchina la utilizza per il profitto della sua azienda; chi, ancora, sfrutta il bisogno del profitto per scopi politici; e, infine, dei tecnici che ne progettano gli algoritmi. Capitale, propaganda, tecnica. Sembra una triade inscalfibile e forse lo è per davvero.

Su questi tre elementi si fondano i regimi moderni, siano essi dittatoriali o liberaldemocratici.

L’accezione negativa della parola regime è, infatti, solo una delle possibili accezioni che il termine possiede. In scienza politica, regime è per definizione il rapporto tra la forma di Stato e la forma di governo di un certo paese, né più né meno.

Il cittadino medio, contemporaneo tra i contemporanei, si informa attraverso questo triplice filtro fatto di interesse economico, politico e tecnologico.

Tolti i primi due, che possono essere celati con scaltrezza e di fatto lo sono, il terzo elemento, quello tecnologico, non può di certo passare inosservato.

La tecnologia contemporanea è infatti quasi oggetto di culto, quantomeno di esaltazione: si investono miliardi di fondi privati e pubblici per potenziarla, per renderla onnipotente (o almeno questo sembra essere il sogno umano del terzo millennio)..

Intendiamoci, non tutta la tecnologia è uguale, ce n’è certamente di “buona”, cioè impiegabile per scopi realmente utili.

Quanto è utile, invece, progettare un sistema di videosorveglianza che possa vedere e sentire tutto ciò che accade in alcuni angoli della città, com’è stato sperimentato a Trento lo scorso anno?

È un uso “neutrale”, questo, della tecnologia di sorveglianza?

Cosa si sorveglia e per quale scopo?

Troppo spesso le questioni legate alla cosiddetta “sicurezza” vengono trasformate in questioni di vitale importanza per l’intero paese; ciò accade anche quando i dati sulla criminalità sono in costante diminuzione e non vi è un reale e urgente bisogno di videosorvegliare chicchessia. Questo è solo un esempio che è possibile fare allorquando si parla di tecnologia e del suo impiego.

Si potrebbero fare decine di altri esempi: lo sviluppo di nuove armi (come taser et similia), sempre a tema “sicurezza urbana”; i sistemi di riconoscimento facciale, pieni zeppi di bias razzisti, che rendono probabilisticamente più colpevoli di reati persone nere rispetto alle altre categorie etniche negli USA (con alcuni casi accaduti anche in Europa); i sistemi di sorveglianza lungo le frontiere europee, che rallentano o impediscono la migrazione a migliaia di persone ogni anno, rendendone la vita infernale, costretti nei cosiddetti hotspot, estate e inverno.

Ad ogni modo, al di là dell’esaltazione che può essere fatta di alcuni avanzamenti tecnologici, gli strumenti tecnologici quotidiani sono ormai entrati a far parte della vita quotidiana stabilmente, dunque sono man mano divenuti “normali”. Lo smartphone, lo smartwatch, i pagamenti contactless e altri tipi di tecnologie ci prescrivono i comportamenti da attuare quotidianamente.

In questo contesto, l’informazione si trova a vivere un significativo mutamento rispetto al XX secolo.

La carta stampata non smette di declinare in favore di forme digitali di informazione.

Ormai una buona parte della popolazione occidentale si informa attraverso i social media e gli stessi giornali e telegiornali – o di quello che ne rimane – spesso e volentieri inseguono le tendenze che nascono dai social. L’infosfera si è ormai interamente fusa con la sfera psichica della popolazione. Nel momento in cui l’attività cerebrale quotidiana è spesa in una sua parte sempre crescente dietro lo schermo iperstimolatore, è inevitabile che anche l’informazione entri letteralmente dentro di noi.

È una forma di violenza simbolica, come la chiama Bourdieu: sottile, difficile da scorgere, ma comunque efficace. 

Ciascuno di noi soccombe quotidianamente al flusso interminabile di stimoli e interazioni digitali, che ci entrano sottopelle, inesorabilmente e lentamente invadono la nostra psiche. Lo stato di assedio in cui si trova la nostra fragile psiche sembra essere poi riflesso nella percezione dello stato del mondo: caos, violenza, desolazione, sembrano essere queste le parole che meglio descrivono l’attualità politica e non soltanto.

Sarebbe comunque un interessante pista di ricerca da perseguire, quella che indagasse il rapporto tra stimolazione visiva e idee politico-sociali sulla realtà esterna: sono disposto a scommettere che non ne uscirebbe un risultato edificante.

Data l’iperstimolazione, l’accelerazione delle notizie che si susseguono una dietro l’altro senza sosta, l’alone di indifferenziazione che copre tutte le notizie, livellandole tutte sul piano superficiale della mera fruizione; ecco, dati questi elementi, come può un individuo vivente in una società contemporanea essere certo di non cadere in una spirale complottistica?

O di non esservi mai caduto a sua insaputa?

Chi non ha, anche solo per un attimo, creduto che l’attentato dell’undici settembre fosse un “inside job” statunitense?

I complotti sono sempre stati tramati e spesso sono arrivati a buon fine.

Le cosiddette teorie del complotto, che concatenano con logiche strampalate certe serie di eventi, sono anche queste sempre esistite. Oggi però vi è la possibilità di crearne una molteplicità potenzialmente infinita e di diffonderle con velocità e pervasività mai viste. Le teorie del complotto sono sempre anche composite, storicamente stratificate: l’antisemitismo non è un fenomeno nato nella contemporaneità, ma sotterraneamente si è modificato col tempo ed è arrivato sino a noi, incarnandosi, ad esempio, in George Soros.

Cambiano gli interpreti, cambiano le concatenazioni logiche, ma il nocciolo duro della teoria resta.

Ci sono poi, invece, teorie che sono tutte contemporanee, ancora più insidiose, perché individuano delle tendenze nella società che effettivamente esistono ma ne distorcono la portata.

Si pensi al caso delle scie chimiche, come bene ne ha scritto Wu Ming 1 trattando delle fantasie di complotto sul clima.

ll traffico aereo è aumentato esponenzialmente negli ultimi decenni, moltiplicando nel cielo le cosiddette scie chimiche, che altro non sono che nuvole createsi attraverso la condensazione del vapore acqueo presente nei gas di scarico degli aerei.

Esse sono innocue ma sono un simbolo.

Un simbolo non deve avere degli effetti reali, concreti sulla realtà. Esso è un segno a cui gli umani attribuiscono un certo significato, il quale, questo sì, avrà degli effetti concreti. È solo mediante l’interpretazione umana che un innocua striscia di vapore acqueo condensato può trasformarsi in un piano dell’élite che ordiscono di ridurre drasticamente la popolazione globale.

Sul piano dell’elaborazione dei segni che riceviamo tutti i giorni, bene o male tutte le persone si equivalgono: è il senso comune, in questo campo, a prevalere.

Non è casuale che anche illustri professori possano cadere in certe spirali complottistiche: il titolo di studio è un discrimine ma non uno scudo.

Chiunque può farsi un’idea di chi sia un complottista, a un livello ideal-tipico: un individuo paranoico, mediamente più sospettoso dei potenziali inganni esterni, disilluso nei confronti della politica, pieno di bias cognitivi che gli impediscono di “vedere la realtà”.

Tolte, però, queste caratteristiche psicologiche, che riguardano poi ciascun singolo, a un livello sociologico il complottista vive come “noi”, che usufruiamo quotidianamente delle notizie sui nostri dispositivi digitali, che scambiamo la notizia per il fatto accaduto, che abbiamo sostituito il reale con il suo doppio, l’iperreale.

La pura ripetizione del reale fino alla sua sparizione, ecco l’iperrealtà.

Lo schermo, in questa sparizione, riveste un ruolo importante: dalla televisione allo smartphone, l’evoluzione è stata fulminea, se si pensa in termini di longue durée. L’organizzazione socioeconomica si è frammentata non più in termini tayloristici ma a un livello microscopico: ciascuno è il proprio padrone.

Tempo di lavoro e tempo libero si confondono sempre di più, laddove il secondo sembra trasformarsi nel primo: l’utilizzo dei social network e, più in generale, la navigazione sulle maggiori piattaforme è, di fatto, lavoro non pagato. E infine, una caratteristica fondamentale sul lungo periodo: l’invecchiamento. 

L’Europa insieme al Nord America sono luoghi di bassa natalità. Ciò ha a che fare intimamente con il decadimento psichico verso cui ci stiamo dirigendo in massa. La solitudine sommata all’invecchiamento non farà che creare delle schiere di individui dotati di scarsa lucidità mentale e quindi anche di opinioni confuse, rendendole facilmente prede delle fantasie di complotto.

Tutto sembra spingerci a pensare che nel futuro prossimo saremo molto più propensi a credere in teorie apparentemente assurde, vista l’assurdità che in primo luogo ogni giorno esperiamo senza rendercene conto.

23/01/2024

Flavio Vasta

Sitografia:
Perché dobbiamo prendere sul serio le fantasie di complotto sul clima. Seconda parte – Wu Ming 1 – Internazionale

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